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Il dietro le quinte del Fast fashion

Fast food o fast fashion? Il significato non cambia. Che sia cibo o abbigliamento si parla sempre di qualcosa di pronto, veloce, usa e getta. Cosa si nasconde dietro la convenienza di una t-shirt acquistata a pochi euro da uno dei grandi colossi dell’abbigliamento? Scopriamolo.

Fast fashion: il fenomeno

L’India ne sa qualcosa, e come essa anche altri territori che possiedono le potenzialità per diventare aziende multinazionali da milioni dollari sanno di cosa parliamo. Per vendere un capo d’abbigliamento ad un prezzo così basso, significa che le grandi catene del fast fashion optano per una produzione a basso costo: non solo in termini di materie prime e fibre di bassa qualità, ma anche di manodopera. I lavoratori di questa filiera non sono infatti adeguatamente tutelati, in termini di sanità, sicurezza e di salario: sono sottopagati e sottoposti a condizioni lavorative pessime.

 

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Il lato oscuro del fast fashion

Alla base della produzione troviamo il cotone, oggi ibrido, dopo l’arrivo dell’America nel 1999 con le coltivazioni di BT-COTTON che hanno sradicato la produzione della pianta di cotone naturale per introdurre una geneticamente modificata e più resistente, il risultato? Un maggior utilizzo di pesticidi che logora internamente un paese, ambiente e abitanti compresi. La produzione di cotone rende i coltivatori economicamente dipendenti dall’acquisto continuo e smisurato di pesticidi e BT-COTTON in quanto i semi della nuova generazione non possono essere riutilizzati. Seguendo il processo anche in questo caso “dell’usa e getta” i produttori si indebitano per sostenere le spese di coltivazioni che rivelatesi spesso troppo costose portano molti lavoratori a prendere decisioni estreme, il suicidio.

Le famiglie dell’India sono dilaniate dal dolore di parenti persi, condizioni economiche disagevoli e una salute cagionevole, che via via alza il tasso di morte. Queste sono solo alcune conseguenze con cui gli abitanti di questi territori hanno imparato a convivere e sopravvivere. I retroscena della moda sono molto più oscuri di quello che pensiamo.

Grandi stati potenze commissionano la produzione e lo smaltimento dei nostri abiti che richiedono l’uso di sostanze nocive, le cause hanno portato a malattie degenerative, neoplasie, disabilità intellettive e malformazioni dei feti. La disinformazione dei paesi più poveri rende inermi le popolazioni che si dissetano con acque inquinate, che lavorano maneggiando sostanze velenose senza protezioni e che respirano fumi tossici.

I ritmi frustranti delle aziende nel fast fashion

I dipendenti di queste grandi aziende lavorano per pochi spicci con turni disumani, con una pausa di quindici minuti per andare in bagno e un’altra di un’ora per il pranzo, turni talmente massacranti che spesso ci si ferma in azienda a dormire per ricominciare poche ore dopo. Abusi psicologici e fisici incentivano i maltrattamenti causati dall’eccessivo e continuo acquisto di abiti che spesso compriamo e buttiamo senza mai indossarli.

Questo folle ciclo produttivo si conclude nelle discariche, colline alte metri e metri dove troviamo capi d’abbigliamento provenienti da tutto il mondo, discariche dove i bambini giocano a nascondino, si rincorrono e saltano da una vetta all’altra, una realtà disumana per noi che conosciamo una vita di gran lunga migliore, una realtà inaccettabile per noi che protestiamo lunghi turni di lavoro che superano le dieci ore, per noi che rivendichiamo i nostri diritti, che abbiamo una scelta, per noi che abituiamo i nostri figli al consumismo comprandogli vestiti di tendenza che resteranno chiusi nell’armadio per poi essere buttati la stagione successiva, per noi che fingiamo non esista una realtà peggiore della nostra. 

 

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Fattori scatenanti

 Esiste un modello di business del fast fashion, ovvero il make to stock (MTS): si basa sulla previsione della domanda d’acquisto e sulla produzione in grandi quantità, in modo tale da avere sempre una scorta sufficiente in magazzino. Lo scopo è quello di non correre il rischio di trovarsi sprovvisti e impreparati alla domanda sempre più elevata da parte dei consumatori, ormai sempre più ricettivi e sensibili alle nuove mode.

Dunque, ad oggi vi è una  sovrabbondanza di scorte in magazzino, conseguenza di una sovrapproduzione relativa a strategie di Marketing incentrate sulla soddisfazione del cliente e a spodestare i competitors, la merce invenduta porta a un’abbondanza di rifiuti. L’economia della moda, infatti, ad oggi è di tipo lineare, segue un proprio ciclo di vita, l’abito viene disegnato, prodotto, indossato e buttato.

Questo spinge il cliente ad acquistarne uno nuovo.

 

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Soluzioni contro il fast fashion

 Make to remake rappresenta un modello di business circolare incentrato sul riciclo, mira a valorizzare riutilizzare e rigenerare, dare ai capi una seconda vita e utilizzarli come una risorsa.

A sostenere questa filosofia troviamo già app come Vinted, ampiamente conosciuta e usata dai più giovani, ad essa si affiancano altre app come: Depop, Vestiarie Collective, Ebay, Shpock.

 

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Presa di consapevolezza

Quando acquistiamo un capo guardiamo sempre il cartellino, informiamoci sull’azienda e la produzione. Molti brand incombono nel fenomeno del Greenwashing, ovvero si presentano sostenitori dell’ambiente attuando iniziative sporadiche che agli occhi dell’opinione pubblica li rendono eco-friendly senza però esserlo davvero. Se il prezzo è troppo basso chiediamoci il perché. Dietro una convenienza si possono nascondere aspetti poco etici.

Cambiare il nostro comportamento di acquisto rappresenta la soluzione, diminuendo la domanda diminuirà l’offerta, salveremo il pianeta, tuteleremo i lavoratori del settore moda ma ancor di più riacquisteremo la nostra identità rispolverando capi del passato, assumendo uno stile unico e non più conformista.

 

by Serena Torrisi

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