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Enclothed Cognition: vestirsi non è solo vestirsi

C’è un antico proverbio che ci invita a diffidare dalle apparenze che il più delle volte non corrispondono alla realtà: si dice “l’abito non fa il monaco” ma siamo sicuri sia davvero così?

Tutti avremo notato come, in diverse occasioni, la percezione che abbiamo degli altri sia influenzata dagli abiti che essi indossano. Ma la moda non si ferma qui: è intimamente connessa all’essere umano, ne è la seconda pelle e ne determina il comportamento; per questo, il modo in cui vestiamo influenza non solo il giudizio che gli altri si creano di noi ma anche ciò che pensiamo di noi stessi. Parola di ricercatori!

È un concetto ampiamente dimostrato, noto anche come teoria dell’Enclothed Cognition, ovvero della “cognizione indossata”, riconducibile al nesso tra moda e psicologia e degna della nostra attenzione poiché potenzialmente utile per affrontare la vita di tutti i giorni.
Vediamo nello specifico cosa significa, studi ed esperimenti che hanno portato alla sua formulazione ed esempi concreti che sono all’origine di questo fenomeno di natura psicologica e sociale. 

 

Migliorare l’attenzione? Basta un camice bianco

“I vestiti invadono il corpo e il cervello e mettono chi li indossa in uno stato psicologico differente.” Adam Galinsky

La teoria secondo la quale gli abiti che indossiamo hanno il potere di influenzarci venne proposta per la prima nel Novecento dallo psicologo statunitense William James, senza però ottenere grande eco.

Ripresa e approfondita più di un secolo dopo, nel 2012, da due ricercatori della Northwestern University dell’Illinois, Hajo Adam e Adam Galinsky, che ne coniarono l’espressione “Enclothed Cognition”.

Per testare la loro svolsero una serie di esperimenti illuminanti dividendo in due gruppi 58 studenti volontari. Nel corso di un’osservazione è stato fatto indossare un camice bianco a tutti, ma a metà di essi è stato detto fosse un camice da medico, all’altra metà quello di un pittore. In realtà i capi erano identici, ma i risultati sono stati differenti: i “medici” si sono rivelati i più attenti e le loro performance hanno superato di gran lunga quelle dei “pittori”.

 

Dalle interviste svolte successivamente, emerse come il camice presentato come da dottore suggerisse effettivamente attenzione e responsabilità, mentre al contrario a quello da pittore erano legati concetti come caos creativo e astrazione. È stata dunque confermata l’importanza ricoperta dall’abbigliamento e dal potere che esso esercita su di noi, diventando parte integrante della nostra identità. 

 

Il potere di una semplice t-shirt

Le persone sono ciò che indossano. Lo sostiene la psicologa e professoressa Karen Pine attraverso uno studio che dimostra come indossare una maglietta raffigurante un supereroe possa influire positivamente sulle proprie performance mentali.

L’originale esperimento venne condotto sugli studenti dell’Università di Hertfordshire, ad alcuni dei quali fu chiesto di indossare una t-shirt con il logo di Superman per capire quanto e se cambiasse il loro atteggiamento in determinate situazioni.
Dai risultati sembra proprio che coloro dotati di “superpoteri”, oltre a sentirsi più sicuri e attraenti, si credevano anche fisicamente più forti. Insomma, erano pronti a salvare il mondo!

Grazie al successo della sua ricerca, Karen Pine – a cui è stato dato l’appellativo di psicologa della moda – ha pubblicato successivamente un libro dove raccoglie tutte le sue ricerche, “Mind What You Wear: The Psychology of Fashion”.

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Come utilizzare la teoria a nostro favore?

Com’è possibile che semplici indumenti possano influire sui nostri processi mentali e sulle nostre azioni? Questo perché diamo un significato a ciò che indossiamo e lasciamo che ci faccia sentire in un determinato modo: un indumento che consideriamo autorevole ci spinge a concentrarci di più e a mettere maggior impegno in ciò che facciamo; diversamente, uno più semplice e casual sortisce in noi l’effetto contrario.

Anche nella vita quotidiana il concetto di Enclothed Cognition è una costante e utilizzarlo può essere molto vantaggioso.
Basti pensare ai colori, chi almeno una volta nella vita non ha assecondato il proprio umore con la scelta dell’abbigliamento? Quando si è giù di morale si tende a prediligere capi più confortevoli, dai colori monocromatici e scuri. Ma se vogliamo utilizzare la teoria dell’Enclothed Cognition a nostro favore dovremmo sceglierne di vivaci e luminosi, così che possano condizionare positivamente il nostro umore e la nostra giornata.

Non solo. Pensiamo soprattutto all’ambito professionale, dove è ormai convinzione diffusa che le donne con abiti mascolini abbiano maggiore probabilità di essere valutate positivamente in un colloquio di lavoro. Sono queste situazioni in cui è importante sentirsi sicuri di sé e all’altezza e se è vero che i selezionatori tendono spesso a dare importanza al modo in cui sono vestiti i candidati, è anche vero che un abbigliamento composto e curato in ogni dettaglio contribuisce ad aumentare la professionalità e a dare il meglio di sé.

 

Perché vestirsi è un gesto culturale, politico e poetico

Il detto “l’abito non fa il monaco” è sbagliato allora? Eccome se lo è! Mai come negli ultimi anni abbiamo visto donne che dello storytelling dell’abito hanno fatto un’arte, dando peso culturale e politico al gesto del vestirsi.

Michelle Obama ci ha insegnato che si potevano usare gli abiti come messaggio politico e come dichiarazione di emancipazione femminile. Non a caso, il New York Times nel 2008 scriveva di lei “She dress to win!” solo qualche mese prima della sua ascesa alla Casa Bianca come First Lady degli Stati Uniti.
Più di un decennio dopo potrebbero invece scrivere “She dress to grow!” se in copertina ci fosse Millie Bobby Brown, attrice diciottenne che con la sua attitudine da super vamp vuole scrollarsi di dosso la bambina conosciuta in Stranger Things.  

E che le scelte del guardaroba non siano un caso neanche per la poetessa Amanda Gorman lo sappiamo bene, che in abito giallo e cerchietto di raso rosso di Prada ha declamato una sua poesia durante la cerimonia di insediamento dell’attuale presidente americano Joe Biden. “Quando mi esibisco sul palco non penso solo ai miei vestiti, ma a quello che la mia maglietta e la mia gonna gialla dicono sulla mia identità”, aveva confessato in un’intervista a Vogue.

In un mondo fluido come il nostro, in continua trasformazione, non basta più vestirsi in modo convenzionale ma in-vestirsi di personalità: raccontare la nostra storia, dettata dai nostri valori, il nostro carattere, la nostra identità.
Perché vestirsi non è solo vestirsi ma incarnare un’idea e su questo, per una volta, potremmo essere tutti d’accordo.

 

By Valentina Ballarino

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