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La doppia faccia di H&M

H&M, azienda multinazionale di abbigliamento low-cost, che oggi conta più di 4000 punti vendita in tutto il mondo con un fatturato di 740 milioni di euro circa, ha spesso fatto discutere per le attenzioni che riserva al tema del riciclo ma anche per i problemi legati ai casi di lavoro minorile, razzismo e sfruttamento dei lavoratori.

Nonostante oggi la situazione economica dell’azienda vada molto bene, negli ultimi anni sono state molte le critiche mosse dai clienti per varie cause che non sono passate inosservate. L’ultima risale a qualche settimana fa quando l’azienda inserì nel catalogo online la foto di un bambino di colore con una felpa verde e la scritta: “coolest monkey in the jungle”, ovvero “la scimmia più bella della giungla”.

Apriti cielo: la gaffe è fatta e così sono iniziati gli insulti all’azienda accusata di razzismo. Tra le voci più autorevoli che hanno accusato H&M di essere lontana dalle lotte per i diritti contro le discriminazioni razziali ci sono quella di Charles M. Brow, editorialista del New York Times, e quella del cantante e produttore discografico, The Weeknd, che ha subito pubblicato sul suo profilo un annuncio per mettere fine alla sua collaborazione con il brand svedese, dichiarandosi offeso e scioccato per quanto era accaduto.

Sebbene l’azienda avesse subito pubblicato sui social delle scuse ufficiali, le accuse e le minacce sono continuate per giorni, tanto da dover chiudere dei negozi in Sud Africa, Paese profondamente offeso dal caso che ha distrutto e boicottato il brand.

La cosa peggiore di questo errore è stato che nel medesimo catalogo un bambino bianco indossava una felpa, evidentemente della stessa serie, con scritto “esperto di sopravvivenza”. Quindi c’è da chiedersi quale sia l’intento: propagandare il suprematismo bianco? 

Detto ciò, non è la prima volta che H&M abbia sbagliato violando dei diritti fondamentali che hanno toccato il pubblico. Un anno fa il colosso svedese era stato accusato di aver impiegato lavoratori 14enni in stabilimenti che si trovavano a Yangon, in Birmania. H&M ha replicato sostenendo di aver avviato un’azione nei confronti dei due stabilimenti, aggiungendo però che il fatto non rappresenta di per sé un caso di lavoro minorile, stando alle leggi internazionali sul lavoro.

L’Organizzazione Internazionale del Lavoro sottolinea piuttosto l’importanza di non escludere quella fascia d’età del lavoro nel Paese, per fare in modo che questi ragazzi si allontanino dalla cattiva strada e si occupino della loro famiglia. Nonostante ciò, la parte più drammatica di questa vicenda sta nel modo in cui proprio quest’ultimi vengono trattati nei luoghi di lavoro. 

Non a caso nel 2013, H&M aveva promesso che, dopo le diverse accuse mosse da diversi movimenti contro lo sfruttamento minorile, avrebbe pagato quello che loro stessi chiamavano un “salario dignitoso equo” ai lavoratori della sua catena di fornitura entro il 2018. 

Sono paghe ben distanti da quello che dovrebbe essere un salario dignitoso, cioè una paga che dovrebbe consentire al lavoratore e alla sua famiglia di condurre una vita decente, e invece H&M si è mostrata particolarmente opaca ai suoi piani, tanto da far pensare che bastasse solo uno spot pubblicitario per placare l’opinione pubblica preoccupata delle sue condizioni di produzione. Quello di cui si sta parlando è un salario che non supera gli 87 dollari al mese, che è addirittura inferiore alla soglia di povertà stabilita dalla Banca Mondiale di 88 dollari al mese. Ciò è scioccante in quanto stiamo parlando di un vero e proprio colosso che ci ha conquistati permettendoci di acquistare dei capi tanto stilosi quanto convenienti.

Allora c’è da chiedersi quali siano in fondo le politiche adottate dal colosso svedese H&M che, se da un lato è collaboratore dell’UNICEF, vicina a temi come il riciclo e l’abbandono di rifiuti, dall’altro pratica delle strategie completamente opposte a quelle che noi tutti comuni mortali vediamo. La domanda che dovremmo farci è solo una: quanto potrà durare questo gioco così ambiguo.

Natalia Carnemolla

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